Alle radici del nuovo sindacato

Un’immagine dello storico sciopero dell’edilizia del 2002

Die grosse Wende in der Gewerkschaftsbewegung (La grande svolta nel movimento sindacale): s’intitola così il nuovo saggio pubblicato dalla casa editrice zurighese Rotpunktverlag, che si presenta non soltanto come una storia del movimento sindacale svizzero alla fine del millennio, ma anche come una guida per chi intende fare buon sindacato oggi.

C’è stato un tempo in cui i sindacati svizzeri consideravano la pace del lavoro quasi come un dogma, un’epoca in cui difendevano gli interessi dei soli lavoratori con passaporto rossocrociato e non s’interessavano molto della condizione delle donne nel mondo del lavoro e nella società.

I sindacati svizzeri erano anche poco interessati a tessere relazioni a livello europeo e internazionale. A sentirlo oggi sembra incredibile, eppure non è passato molto tempo dalla svolta che ha portato il movimento sindacale ad assumere un atteggiamento meno corporativo, più combattivo e aperto.

Ad analizzare questa stessa svolta –  avvenuta negli anni Novanta –  sulla base dell’esperienza personale e della consultazione di diverse fonti, dall’archivio a vari testimoni dell’epoca, ci hanno pensato due protagonisti di quel periodo storico: Vasco Pedrina e Hans Schäppi, che hanno traghettato il Sindacato edilizia e legno (Sel) e la Federazione del personale dei tessili, della chimica e della carta (Ftcc) all’interno del Sindacato edilizia e industria (Sei), una delle sigle che, a metà degli anni 2000, attraverso un’ulteriore processo di fusione, darà vita a Unia.

Non c’è pace senza giustizia

Il saggio di Pedrina e Schäppi prende avvio con un’analisi degli effetti del Sessantotto sul movimento sindacale. In questo periodo, secondo Pedrina, «comincia a essere messo in discussione da più parti il concetto di pace del lavoro». Non è da sottovalutare, secondo Pedrina, l’apporto politico e ideologico della forza lavoro straniera: «È stato Ezio Canonica, alla guida della Federazione dei lavoratori edili e del legno e dell’Unione sindacale, ad aprire le porte del sindacato ai lavoratori stranieri. È stato lui anche ad assumere personale straniero e a creare gruppi sindacali che parlassero diverse lingue».

Molti di questi migranti, provenienti dall’Italia e dalla Spagna, in parte vicini all’ideologia comunista o comunque cresciuti con il concetto di lotta di classe, non avevano affinità con la pace del lavoro e trovavano più corrispondenza politica con i nuovi movimenti di sinistra radicale che si andavano formando in Svizzera. Alcuni degli esponenti di questi movimenti cominciarono proprio a entrare nel sindacato e a mettere in discussione le vecchie strutture di potere. Tuttavia, negli anni Settanta e negli anni Ottanta, «si persero occasioni importanti per rinnovare nel profondo le strutture organizzative e la cultura sindacale».

Un esempio tra i tanti appare interessante: nel 1974, a seguito della crisi internazionale, i lavoratori di alcune industrie romande, molti dei quali stranieri, organizzarono delle azioni di sciopero spontaneo che ebbero una vasta eco nazionale. Il Sindacato dell'industria, della costruzione e dei servizi (Flmo) non seppe però trasformare e incanalare questa vitalità conflittuale, rimanendo ancorato al concetto di pace del lavoro e perdendo l’occasione per costruire un processo di rinnovamento di lunga durata.    

Nuove frontiere

Sul finire degli anni Sessanta, si comincia anche ad avvertire l’esigenza di organizzare fasce di lavoratori tradizionalmente estranee al movimento sindacale. In questo periodo, «si assiste a un processo molto veloce di terziarizzazione dell’economia, un settore in cui il sindacato non era radicato».

Sarà solo tra gli anni Ottanta e Novanta, però, che il sindacato lavorerà attivamente per avvicinare anche i lavoratori dei servizi e i colletti bianchi: «In questo ambito dobbiamo riconoscere una parziale sconfitta: non siamo riusciti a sfondare tra gli impiegati, anche a causa di decenni di politiche padronali che hanno diviso operai e impiegati. Soltanto alla fine degli anni Novanta, con la cosiddetta piccola unia, siamo riusciti a costruire qualcosa di veramente significativo tra i lavoratori e le lavoratrici del terziario».

Quello che non è riuscito con i colletti bianchi, ha avuto successo con le donne: «La quota di donne nei sindacati svizzeri è stata tradizionalmente bassa, ma negli ultimi decenni siamo riusciti a invertire decisamente la tendenza». Oggi le lavoratrici associate sono ancora in minoranza rispetto agli uomini ma in costante crescita, mentre la dirigenza, ad esempio di Unia, per la prima volta nella storia, è a maggioranza femminile (con tre donne che, oltretutto, rivendicano con orgoglio le loro origini migranti).

«Con le fusioni degli anni Novanta, che hanno portato al sindacato interprofessionale», continua Pedrina, «abbiamo cominciato a rivendicare con più forza il nostro ruolo politico, ricostruendo la nostra «capacità referendaria», impegnandoci direttamente a favore di iniziative progressiste, e siamo riusciti a emanciparci dal Partito socialista, che stava perdendo quota fra il suo elettorato operaio a favore dei ceti medio-superiori. Abbiamo cominciato a tessere rapporti strutturali e non di facciata con i sindacati europei. È anche grazie a questo, se siamo riusciti a ideare e a far passare le misure di accompagnamento come pure a far capire la loro importanza a tutti i sindacati europei».

A Pedrina, che ha scritto questo libro anche per le nuove generazioni oggi attive nel sindacato, chiediamo quali siano le sfide per la nostra organizzazione sindacale: «Dobbiamo fare di tutto per evitare la burocratizzazione del sindacato, è necessario rafforzare le reti militanti, far crescere figure sindacali con esperienza lavorativa nei nostri rami di riferimento e mantenere un dibattito politico interno schietto e vivace. Ai segretari e alle segretarie di oggi dico invece di vivere la loro professione anche come una missione: lavoratori e lavoratrici, ora più che mai, hanno bisogno di noi».