Collaborativi, ma a scopo di lucro

«Uber prospera, noi facciamo la fame»: protesta a Basilea contro Uber, settembre 2015.

La chiamano «share economy», economia collaborativa. Ne fanno parte offerte socialmente utili, come il car sharing o le banche del tempo. Alcune piattaforme mirano però in primo luogo a generare nuovi profitti, a scapito dei diritti dei lavoratori. Per i sindacati è una nuova sfida.

Un cellulare, un computer, un collegamento a internet. Bastano pochi clic e l’utente ottiene il servizio desiderato: un taxi fornito da «Uber», un alloggio a buon mercato messo in rete su «Airbnb», una donna delle pulizie assunta sul web.

Nuove forme di sfruttamento

Quella che si presenta come un’offerta allettante, comoda e al passo con i tempi, cela però sovente nuove forme di sfruttamento. I lavoratori coinvolti operano spesso in condizioni di grande precarietà, senza garanzie sociali e assicurative. Le piattaforme digitali permettono ai fornitori di servizi di sottrarsi alle proprie responsabilità di datori di lavoro. «Il concetto di economia collaborativa in questi casi è fuorviante», osserva Arnaud Bouverat, membro della direzione del settore terziario di Unia. «L’accento andrebbe messo piuttosto sull’aspetto mercantile di queste offerte. Spesso è un modo di generare nuovi profitti al di fuori o ai margini delle regole vigenti». Grazie alle pressioni esercitate sulle condizioni di lavoro, i protagonisti di questa nuova economia riescono a ritagliarsi un notevole vantaggio competitivo rispetto all’economia tradizionale. Alla lunga questo può condurre a un peggioramento generalizzato delle condizioni di lavoro.

La posizione di Unia

Unia è ben consapevole del problema. Il sindacato ha già avuto un ruolo di primo piano nelle proteste dei taxisti di Basilea contro «Uber». L’assemblea dei delegati del settore terziario ha dedicato in gennaio una risoluzione all’«economia collaborativa». Le richieste sono chiare: rispetto di tutti i contratti collettivi di lavoro e delle regolamentazioni del mercato del lavoro, inserimento nel quadro legale in cui si muovono anche gli altri datori di lavoro del settore. «Prima di tutto occorre però un’analisi sistematica della questione. Ogni piattaforma ha le sue specificità», osserva ancora Arnaud Bouverat. «’Uber’ opera apparentemente come datore di lavoro, perché definisce i criteri di accesso, di retribuzione e di valutazione. Nel caso di ‘Airbnb’ non è invece la piattaforma che funge da datore di lavoro. Sono piuttosto i fornitori di servizi che possono usare la piattaforma per dar vita a un’attività commerciale in concorrenza con le istituzioni riconosciute». Per questo Unia chiede una perizia giuridica in materia di diritto svizzero per definire i casi in cui questi attori economici devono assumere un ruolo di datore di lavoro e i lavoratori beneficiare delle protezioni sociali a cui hanno diritto. La prima piattaforma a essere analizzata dovrebbe essere proprio «Uber».