L’orologeria non è in crisi

Pierluigi Fedele è membro della direzione nazionale di Unia e responsabile per l’industria orologiera.

L’industria orologiera svizzera sta attraversando una fase di rallentamento. Lo scorso anno le esportazioni sono diminuite di circa il 3% rispetto all’anno precedente. Era dalla crisi del 2009 che il settore non registrava una diminuzione del fatturato. Il rallentamento ha avuto ripercussioni anche sull’impiego: nell’arco di un anno, sono andati persi a causa dei licenziamenti un migliaio di posti di lavoro, su un totale di circa 59.000.

Uno dei casi più recenti e di più ampia portata riguarda il gruppo Richemont, che a metà marzo ha annunciato l’intenzione di sopprimere 300 impieghi negli stabilimenti Piaget, Vacheron Constantin e Cartier. La scorsa settimana l’azienda Ernest Borel Sa ha confermato le notizie divulgate dalla stampa su un piano di ristrutturazione che toccherebbe un quarto dei suoi effettivi, che ammontano a una quarantina di persone. Per comprendere quello che sta accadendo nel settore, ne abbiamo parlato con Pierluigi Fedele, membro della direzione di Unia e responsabile dell’industria orologiera e della microtecnica.

Si può parlare di crisi nel settore orologiero?

E si possono fare paragoni con altri rami industriali? L’industria orologiera è un discorso a parte, ha preoccupazioni diverse da quelle, per esempio, dell’industria metalmeccanica. Il franco forte ha un ruolo secondario, i problemi odierni dipendono piuttosto dalle dinamiche di alcuni mercati d’esportazione, in particolare quelli asiatici. Tuttavia i livelli d’esportazione rimangono alti. Non siamo in una situazione di crisi.

Qualche problema c’è, però…

Il problema semmai è che a differenza di altri settori industriali, l’orologeria non ricorre spesso a strumenti alternativi ai licenziamenti, quali per esempio il lavoro ridotto. O lo fanno solo le piccole aziende di fornitori che dipendono dai grandi gruppi. Questi ultimi quando devono aumentare la produzione assumono, quando la produzione diminuisce licenziano. È una forma di adattamento brutale alla situazione congiunturale. Non si tratta – e questo è importante sottolinearlo – di aziende in difficoltà economica che devono licenziare personale per sopravvivere. È solo una questione finanziaria.

I licenziamenti nell’orologeria riguardano spesso anche le piccole imprese.

Sì, è vero, ma anche questi licenziamenti rispondono alle logiche del settore. Le piccole aziende dipendono quasi tutte dai grandi gruppi. E quando i grandi gruppi registrano una contrazione dei profitti, si rifanno sui piccoli fornitori. Di fronte ai problemi sui mercati asiatici, hanno subito chiesto ai fornitori una riduzione del 10-15% sui prezzi. E questo ha reso molto precaria la situazione di alcune aziende. D’altra parte bisogna anche ricordare che molte aziende sono state comprate da gruppi stranieri. È il caso di Ernest Borel, che è in mano a investitori cinesi. Le decisioni strategiche vengono prese in Cina.

Come si potrebbe descrivere la situazione?

Siamo in una logica strettamente finanziaria. I piccoli produttori davvero indipendenti sono sempre più rari. La maggior parte di loro dipende dai grandi gruppi, è vincolato da contratti di subappalto molto rigidi oppure è in mano a gruppi stranieri. Più che parlare di crisi, bisognerebbe parlare lare del processo di concentrazione e di finanziarizzazione in atto da qualche anno. Un processo che nell’orologeria è rimasto più nascosto, perché si continua a coltivare il mito artigianale e del “made in Switzerland”.

Qual è lo spazio di manovra del sindacato?

Il dialogo con il padronato sui licenziamenti è difficile. Per noi è inconcepibile licenziare se le cifre sono buone, il padronato dice di non voler mantenere persone che non hanno niente da fare… Nel caso di Richemont e Borel, siamo riusciti a organizzare una certa mobilitazione del personale. Presso Borel soprattutto c’è però molta disponibilità a impegnarsi, perché il personale è smarrito di fronte a decisioni prese a Pechino.

Le difficoltà del settore influiscono anche sui negoziati in corso sul CCL?

Dopo quattro anni di profitti record, il padronato cerca di focalizzare la discussione sull’attuale stagnazione del settore per limitare le rivendicazioni sindacali. Non siamo tuttavia in una situazione in cui il padronato cerca di smantellare delle conquiste iscritte nel CCL: in un contesto finanziario tutto sommato confortevole sarebbe una posizione indifendibile. In ogni caso dovremmo arrivare a un accordo sul nuovo CCL verso la fine di giugno.

Tra le rivendicazioni principali di Unia nel settore orologiero, oltre all’aumento dei salari, c’è la lotta allo stress sul lavoro…

La questione dello stress è molto sentita dalla base, tanto che negli ultimi anni è passata al primo posto fra le rivendicazioni dei militanti, addirittura davanti ai salari. È evidente che le accresciute pressioni a cui sono sottoposti i lavoratori nell’attuale fase congiunturale hanno contribuito ad acuire il problema. Naturalmente il tema è oggetto di discussione nell’ambito dei negoziati sul CCL. Tuttavia, se negli scorsi anni il padronato ha fatto un lavoro abbastanza interessante sulla salute fisica, sulla questione dello stress non è molto sensibile.

Un’ultima domanda sul caso Richemont. Qui state negoziando un piano sociale, che cosa ci si può aspettare?

Ovviamente per un sindacato un piano sociale non è mai la soluzione ideale, le persone perdono comunque il loro impiego. A questo proposito voglio prima di tutto ricordare il grande lavoro che è stato fatto nelle regioni durante la procedura di consultazione. All’inizio Richemont aveva annunciato oltre 300 licenziamenti, ora è stato possibile trovare soluzioni alternative, per cui alla fine i licenziamenti saranno molto probabilmente meno di cento. Per quel che riguarda il piano sociale, posso dire che si tratta di un piano di tutto rispetto. Siamo prossimi alla conclusione, l’ultima trattativa è in programma questo venerdì.