«La pressione deve venire dal basso»

Il primo Congresso delle migranti e dei migranti nel 2015 a Berna. (immagine:©Manu Friederich)

Intervista con Aurora García, responsabile nazionale di Unia per la migrazione. Dopo quasi sei anni passati a Unia, Aurora García lascia il sindacato per partecipare a una missione di osservazione sul rispetto dei diritti umani in Palestina. Tempo di qualche bilancio.

 

 

Aurora, gli anni che hai trascorso a Unia sono stati piuttosto difficili dal punto di vista della politica migratoria. A posteriori vedi anche degli sviluppi positivi?

Il quadro politico generale è evidentemente negativo, anche se qua e là c’è stato qualche piccolo passo avanti. Un’evoluzione positiva l’ho vissuta piuttosto all’interno di Unia. Quando sono arrivata eravamo una squadra in buona parte nuova e inesperta. In questi anni siamo riusciti a dare struttura e continuità al lavoro sulla migrazione. E questo è stato apprezzato anche dai militanti. In ogni caso parto con la convinzione che sia possibile cambiare le cose. Bisogna però rafforzare il lavoro di base. La pressione deve venire dal basso. Fra i migranti c’è un grande potenziale di mobilitazione.

Dopo la votazione sull’iniziativa UDC sull’immigrazione c’è stato il tentativo di rafforzare la collaborazione con altre organizzazioni. Con che risultati?

Il fatto di riuscire a (ri)costruire una rete con altre organizzazioni è sicuramente da annoverare tra gli sviluppi positivi. Non è stato facile, perché molte organizzazioni della «vecchia» emigrazione hanno perso il loro carattere politico. Però ci sono alcune nuove organizzazioni molto attive, sia nell’ambito dell’asilo e della difesa dei diritti dei sans-papiers, sia in quello delle nuove migrazioni. Penso per esempio alla Fabbrica di Zurigo e a Marea Granate, che danno voce ai nuovi migranti italiani e spagnoli. Anche la collaborazione con alcuni partiti si è approfondita.

Resta il fatto che la votazione del 9 febbraio 2014 è stata una sconfitta pesante…

Il pericolo rappresentato dall’iniziativa è stato gravemente sottovalutato, anche in ambito sindacale. Quando si è cominciato a intuire che il sì poteva prevalere era troppo tardi. Il risultato della votazione ha però avuto almeno il merito di portare il tema al centro dell’attenzione, anche nell’Unione sindacale svizzera. Permane tuttavia il rischio che la migrazione non sia considerata davvero un compito sindacale. E che non si capisca che la posta in gioco è più alta. Per l’UDC la politica di migrazione è lo strumento per realizzare il suo progetto di una società nazionalista e conservatrice e di un’economia ultraliberista.

Almeno la metà degli iscritti di Unia ha un retroterra migratorio. In che misura i militanti riescono a far sentire la loro voce?

Ci sono pochi luoghi che io conosca dove i migranti possono parlare così liberamente come a Unia. I militanti attivi sono però un gruppo abbastanza piccolo rispetto al totale degli affiliati. E a volte colgo segni di stanchezza, forse dovuti alla sensazione di non essere sempre ascoltati. Dopo la votazione del 9 febbraio 2014 abbiamo organizzato il Congresso dei migranti, per rafforzare la mobilitazione. È stato un bell’evento, pieno di energia, sfociato anche in varie iniziative interessanti. Ci ha però anche mostrato la difficoltà di mobilitare i migranti sul piano politico in forma continua e sostenibile.

Dopo la bocciatura della cosiddetta iniziativa sull’attuazione, i sindacati hanno lanciato un’offensiva per la naturalizzazione. Che ne pensi?

La proposta ha suscitato qualche discussione, perché almeno all’inizio il messaggio metteva in primo piano soprattutto la protezione dei migranti. Ma il problema principale è che molti nostri affiliati non potrebbero diventare svizzeri, anche se lo volessero. È giusto e legittimo incoraggiare le persone a diventare svizzere. Però il discorso deve andare oltre. Occorre riconoscere a tutti quelli che vivono qui il diritto di partecipare a questa società. Bisogna rompere con la concezione tradizionale di Stato nazionale. È ora che la sinistra lavori a una visione dello Stato alternativa a quella della destra.

Unia si è impegnata anche nella difesa dei diritti dei sanspapiers e dei richiedenti l’asilo. Qual è il tuo bilancio di queste attività?

Si tratta di temi difficili, in parte lontani dal tradizionale lavoro sindacale. E sono anche temi in cui ci siamo resi conto dei limiti delle nostre risorse. Comunque, parlando di sans-papiers, Unia è rimasta un punto di riferimento a livello nazionale. Quanto all’asilo, è un tema su cui siamo stati molto presenti in questi ultimi anni, a causa della cosiddetta crisi dei rifugiati. L’arrivo di un gran numero di profughi in Europa rischia anche di far crescere l’area dei lavoratori illegali e quindi si ricollega alla questione dei sans-papiers. Unia ha sempre detto che è molto importante integrare i rifugiati e i richiedenti l’asilo. Però sull’integrazione concreta nel mondo del lavoro il discorso è difficile, perché l’interesse dei padroni è di avere manodopera a basso costo. Il sindacato viene talvolta accusato di impedire l’integrazione, con la sua politica in difesa di buoni salari. Dobbiamo far capire che se si crea precarietà per i rifugiati, questa avrà conseguenze per tutte le lavoratrici e i lavoratori.

Ora stai per lasciare Unia. Cosa ti porti dietro di questa esperienza?

Sono arrivata a Unia subito dopo l’università. La migrazione faceva parte della mia storia personale e dei miei studi di antropologia sociale. Ma nel sindacato ho imparato moltissimo, in particolare anche grazie al lavoro in un team. Ci sono molte emozioni. In qualche modo sento di lasciare una famiglia.