«La mia vita privata non esisterebbe più»

Orari più lunghi significano maggiori difficoltà a conciliare lavoro e famiglia.

Il 96% dei partecipanti a un sondaggio realizzato da Unia si oppone alla nuova legge sugli orari di apertura dei negozi (LANeg), in discussione alle Camere federali. La percentuale del no è sostanzialmente omogenea in tutte le regioni del paese. Al sondaggio hanno partecipato oltre 2500 venditrici e venditori.

«Sono contraria all’estensione dell’orario di apertura dei negozi perché la mia vita privata ne risentirebbe», dice Karin B., 34 anni, da sedici anni attiva nel settore della vendita, in occasione della presentazione a Berna dei dati del sondaggio. «Per esempio il sabato: già ora sono sempre l’ultima ad arrivare se c’è un evento la sera. Se il negozio rimanesse aperto più a lungo, non varrebbe neppure la pena di andarci». Nicole, 47 anni, anche lei impiegata da vari anni nel commercio al dettaglio, è divorziata e si occupa da sola dei due figli. «L’estensione dell’orario nel canton Neuchâtel non è stata benefica. Arrivando a casa alle otto passate, non è più possibile seguire i compiti e la preparazione dei lavori scritti. Al rientro dal lavoro non abbiamo più la concentrazione necessaria per farlo e anche i figli non sono più reattivi a quell’ora… Allora come faremo se in futuro finiremo di lavorare alle 20.15 e arriveremo a casa attorno alle 21?»

60% degli addetti

A preoccupare Karin, Nicole e migliaia di altri addetti alla vendita è la nuova legge sugli orari di apertura dei negozi, discussa attualmente dalle Camere federali. La legge vuole imporre ai cantoni standard minimi per gli orari di apertura dei negozi: dalle 6 alle 20 durante la settimana e dalle 6 alle 18 il sabato (v. anche la scheda a p. 8; nella versione del Consiglio federale l’estensione il sabato era fino alle 19). Se entrasse in vigore, comporterebbe un’estensione degli orari di lavoro in 14 dei 26 cantoni. A essere toccato è il 60% degli impiegati nel settore della vendita. «È la prima legge federale che non riguarda solo una parte del personale delle vendite, come quello delle stazioni o delle stazioni di servizio, ma l’insieme delle venditrici e dei venditori di 14 cantoni», fa notare Vania Alleva, presidente di Unia.

Un no inequivocabile

I timori delle venditrici e dei venditori emergono in modo inequivocabile dai risultati del sondaggio condotto da Unia tra aprile e dicembre 2015. Alla domanda se sia a favore della nuova legge, il 96% delle 2520 persone interrogate ha risposto di no, mentre solo l’1,85% ha detto di sì e un altro 2,1% non ha risposto. Il no è ancora più netto se la domanda riguarda solo il sabato sera: oltre il 98% è contrario a lavorare più a lungo. «In pratica vorrebbe dire che il sabato diventa un giorno normale di lavoro», osserva Karin B. I risultati del sondaggio sono sostanzialmente simili nella Svizzera francese e nella Svizzera tedesca (il campione della Svizzera italiana è troppo piccolo per essere significativo). Le differenze tra cantoni più o meno liberali sono limitate; la percentuale minima di contrari è registrata nella regione di Zurigo-Sciaffusa, dove poco meno del 90% degli interpellati si oppone alla legge. Il risultato è ancora più netto di quello di un sondaggio effettuato dall’istituto GfK nel 2013, che indicava una maggioranza dell’85% contraria al lavoro serale o domenicale.

Protezione insufficiente

Le ragioni di una simile opposizione alla nuova legge vanno cercate nella protezione insufficiente dalle lunghe giornate di lavoro. «La metà delle venditrici e dei venditori non è soggetta a un contratto collettivo di lavoro e i CCL esistenti proteggono poco i salariati dall’estensione dell’orario di lavoro. I nostri tentativi, ancora recenti, di introdurre dei limiti giornalieri della durata del lavoro sono finora falliti», osserva Arnaud Bouverat, membro della direzione del settore terziario di Unia. «L’effetto immediato dell’estensione è di rendere gli orari di lavoro o più flessibili o più lunghi. Inoltre il lavoro nella vendita rimane segnato da una forte precarietà. 50 000 persone su 320 000 hanno un salario inferiore ai 4000 franchi»

Referendum

Per Unia è chiaro che solo un CCL nazionale di carattere obbligatorio nazionale, ancorato nella legge, permetterebbe una protezione efficace dell’insieme del personale. Le federazioni del commercio al dettaglio si sono rifiutate però finora di negoziare su questo punto. Di fronte a una proposta di legge che comporta solo un peggioramento delle condizioni di lavoro e all’opposizione netta espressa dal personale della vendita, la risposta di Unia è univoca: «Se la legge dovesse essere accettata dal Parlamento nella forma attuale, Unia la combatterà con tutti i mezzi necessari, compreso il referendum popolare», avverte Vania Alleva.