La povertà non è mai una colpa

Per non rischiare di dover lasciare il paese o di vedersi declassato il permesso di soggiorno molti non richiedono l’aiuto sociale.

Una donna migrante lasciata sola ad accudire i figli dall’ex marito irresponsabile senza alcun sostegno finanziario. Un lavoratore edile, con un passaporto dell’Ue e anni di lavoro alle spalle in Svizzera, con la schiena distrutta che non può ricevere la rendita d’invalidità perché la Suva dice che potrebbe svolgere un’altra mansione. Queste due storie, non raccontate nel dettaglio, sono reali e queste persone, nonostante la situazione di estrema difficoltà che stanno vivendo, rischiano di dover lasciare la Svizzera in caso di richiesta di aiuto sociale.

La loro colpa? Avere bisogno di un sostegno economico in una situazione estrema. La pandemia ha peggiorato la situazione, ma ormai molti migranti hanno imparato ad avere paura delle istituzioni e della Legge federale sugli stranieri e la loro integrazione (LstrI): per non rischiare di dover lasciare il paese o di vedersi declassato il permesso di soggiorno oppure ancora di perdere il diritto alla naturalizzazione molti non hanno richiesto l’aiuto sociale.

Nessuna statistica riesce a restituire l’ampiezza di un fenomeno che ha coinvolto migliaia di persone. Le uniche fonti che abbiamo sono le organizzazioni no profit che, in questi mesi di pandemia, hanno registrato un picco di richieste di aiuto di persone senza passaporto.

Di questo si è parlato durante la conferenza della migrazione dell’Unione sindacale svizzera che si è svolta il 4 settembre a Berna. Una manifestazione che ha visto la partecipazione di una sessantina di militanti sindacali e rappresentanti delle associazioni migranti.

Il sogno svizzero  

Molte delle persone senza passaporto stanno bene in Svizzera. L’ultimo studio pubblicato dall’Osservatorio del volontariato, ad esempio, conferma che la fiducia che gli stranieri residenti in Svizzera ripongono nelle istituzioni politiche del Paese supera addirittura quella degli svizzeri, già di per sé molto alta.

Più di due terzi degli intervistati, nel quadro del sondaggio Migration-Mobility, per citare un altro esempio, valutano la loro soddisfazione rispetto all’esperienza di emigrazione in Svizzera con un punteggio di 9 o 10 su una scala di 10.

Più di tre quarti degli stranieri intervistati nel quadro dello stesso sondaggio tra ottobre 2020 e gennaio 2021 hanno addirittura detto di essersi sentiti «a casa» in Svizzera durante la crisi sanitaria.

Anche se a livello di percezione della popolazione straniera questi studi mostrano che non è tutto rose e fiori, soprattutto tra le minoranze di origine africana ed asiatica, tuttavia possiamo dire che la maggior parte della popolazione straniera, in generale, è contenta della propria vita in Svizzera.

La Confederazione è ancora per molti stranieri una terra che offre possibilità di riscatto, tanto lavoro e, spesso, per i lavoratori altamente qualificati, che sono tanti, anche ricchezza e posizioni lavorative molto interessanti. La pandemia ha fatto emergere però la precarietà della condizione migrante.

Finché va tutto bene, infatti, le persone senza passaporto possono godere del benessere svizzero. Non appena subentrano difficoltà, la condizione migrante emerge ancora come fattore altamente discriminante: i lavoratori migranti si sono trovati in prima linea a sostenere il peso delle chiusure nella vendita al dettaglio, nella logistica (pensiamo al caso estremo della Dpd) e nel settore sanitario.

Sono stati anche tra i più colpiti dal punto di vista salariale nel momento in cui si sono ritrovati a percepire soltanto l’80% della paga, ovvero l’indennità del lavoro ridotto, o a perdere un lavoro molte volte già precario.

In caso di estremo bisogno, in molti casi, non hanno chiesto l’aiuto sociale. Questo perché c’è una legge che considera la povertà come una colpa, se non un crimine.  Nel momento della difficoltà, il sogno elvetico, lo «Swiss dream», rischia di sgretolarsi.

Le città solidali

In mattinata Marie Moeschler, giurista del sindacato Unia, è intervenuta proprio sulla LStrI e sugli inasprimenti del testo, introdotti nel 2019, che hanno ulteriormente complicato la vita degli stranieri. I giuristi di tutte le regioni Unia sono ormai diventati esperti in materia perché si trovano spesso a difendere associati e associate senza passaporto.

Il problema infatti non è soltanto la legge iniqua, ma l’arbitrio di alcuni uffici della migrazione che peggiorano ulteriormente la situazione del malcapitato di turno. La situazione varia inoltre da cantone a cantone e questo provoca delle inaccettabili disparità di trattamento. In alcuni cantoni, infatti, ai fini del prolungamento dei permessi di soggiorno si considerano anche altre forme di aiuto sociale: prestazioni complementari Avs, prestazioni complementari per famiglie, aiuti alle persone anziane o disabili, sostegni per alloggio o disoccupazione.

A volte la disparità di trattamento è nata da una sensibilità sociale di un determinato contesto geografico: Franziska Teuscher, consigliera verde della città di Berna, ha analizzato il ruolo sociale di alcune città durante gli ultimi mesi. Un tema che è stato affrontato anche durante uno dei tre workshop pomeridiani organizzati dall’Uss. La pandemia ha fatto emergere problemi nascosti e posto delle sfide ai grandi centri urbani: oltre alla paura di richiedere l’aiuto sociale in caso di bisogno, per alcune categorie di migranti, come ad esempio i sans-papier, non sono stati previsti strumenti di aiuto economico.

Le immagini delle code di persone in attesa di aiuti alimentari a Ginevra hanno fatto il giro del mondo. Alcune città, come Berna, hanno però reagito chiedendo di sospendere gli aspetti più repressivi della legge per gli stranieri. Zurigo ha addirittura istituito un fondo apposito, gestito da organizzazioni non profit presenti sul territorio, che permette agli stranieri di richiedere aiuto senza dover passare dagli uffici sociali. Anche Ginevra si è mossa in tal senso. La Svizzera solidale, per fortuna, esiste ancora.